L’anello di congiunzione fra l’arte organaria del passato e l’arte organaria del presente.
I fenomeni elettrici e la storia dell’elettricità sono da sempre stati una mia grande passione che tutt’ora prosegue con un sempre maggiore interesse rivolto a questo campo tecnologico.
Parallelamente alla citata passione elettrica convive con lo stesso interesse e lo stesso ardore l’altra mia grande passione: quella per gli organi a canne.
Mio padre e tutta la mia famiglia sono infatti dediti da sempre a quest’arte tecnologico-musicale le cui conoscenze tecnico-pratiche provengono per una considerevole parte, dalla secolare ditta Aletti di Monza in cui mio padre Alessandro Corno (22 agosto 1926 – 19 marzo 2017) vi ha lavorato. (Vedi Fig.1)
Molti di voi si chiederanno quale nesso abbiano l’elettricità con gli organi a canne. Vi posso assicurare che se avrete la pazienza e l’interesse di leggere questa mia ricerca storica ve ne renderete conto personalmente.
La ditta Fratelli Aletti di Monza nacque nel lontano 1849 e, non riuscendosi a risollevare dopo il secondo conflitto mondiale, chiuse i battenti alla fine di Dicembre del 1947 dopo quasi un secolo di attività. (Vedi Fig.2 e Fig.3)
Aletti e l’innovazione dell’elettricità applicata all’organo a canne
(Aletti, primo in Italia, sperimenta nel 1899 l’elettricità applicata all’organo a canne)
Questa fabbrica è stata un’azienda italiana molto florida e completamente orientata verso l’innovazione e il progresso tant’è che negli anni da fine ottocento a inizio novecento, dominati principalmente dalle nuove scoperte di natura elettrica, ne fece quasi un suo marchio di fabbrica: “l’innovazione elettrica”.
Ecco il punto fondamentale di connessione con l’elettricità; la ditta Aletti credette fermamente nello sviluppo dell’elettricità applicato all’organo a canne poiché a quei tempi i rarissimi organi a trasmissione elettrica, presenti sul territorio Nazionale, erano alimentati da costose batterie a liquido che, una volta scariche, non potevano essere ricaricate e dovevano essere gettate. In quel periodo l’organo a canne a trasmissione elettrica aveva quindi un alto costo di esercizio in quanto, per poter funzionare, era legato a costose batterie usa e getta che duravano a quei tempi solo alcune ore! (Vedi Fig.4)
È quindi chiaro e lampante che gli sviluppi relativi alla trasmissione elettrica di questo strumento musicale era dovuto in gran parte alle difficoltà di alimentazione e non certamente alla tecnologia elettrica per altro piuttosto primordiale a quei tempi. La soluzione per abbattere i costi e contemporaneamente sviluppare l’applicazione del sistema elettrico per gli organi a canne fu trovata dalla ditta Aletti nell’allacciare questi strumenti alla rete elettrica cittadina allora chiamata “corrente stradale”. Oggi fa sicuramente sorridere questa applicazione ma non certamente data per scontata nella nascente distribuzione elettrica di primo novecento. (Vedi Fig.5)
Infatti la ditta Aletti sperimentò per prima in Italia questa idea: era il 1899; il primo organo a canne italiano (ovviamente a trasmissione elettrica) che ricevette il “battesimo” dalla rete elettrica fu quello degli Artigianelli di Monza. (Vedi Fig.6)
Nella chiesa di S. Stefano Maggiore a Milano Aletti progetta e costruisce il primo organo ad alimentazione elettrica d’Italia.
Forte di questa prima esperienza la “Fratelli Aletti” progetta e costruisce nel pieno centro storico di Milano il primo organo ad alimentazione elettrica d’Italia (chiesa di S. Stefano Maggiore); era il 1903. Con questo progetto la ditta Aletti dimostrò che era possibile costruire organi a trasmissione elettrica privi delle costose batterie e allo stesso tempo fornire un grande impulso per lo sviluppo e per le applicazioni di tutta la tecnologia elettrica dedicata.
Ma andiamo per gradi; come è nata la produzione, la distribuzione e la rete elettrica di Milano chiamata in quegli anni anche “corrente stradale”? La borghesia di Milano non era certamente all’oscuro dei primi fenomeni elettrostatici in quanto, questi ultimi, venivano spesso mostrati come curiosità già nel settecento presso le ricche famiglie milanesi da intraprendenti professori di fisica. Nel 1799 Alessandro Volta (1745-1827) (Vedi Fig.7) presenta al mondo la pila elettrica; con questo apparecchio elettrochimico che viene utilizzato tutt’ora, è possibile avere finalmente a disposizione una sufficiente quantità di energia elettrica per poter effettuare i primi studi ed esperimenti sull’elettricità.
Qualche cenno sulla storia dell’elettricità e sul suo utilizzo nell’industria
Nella prima metà dell’ottocento vennero infatti consolidate le conoscenze di natura scientifica che permisero la comprensione dei maggiori fenomeni di natura elettrica con il risultato di favorire l’interesse da parte di ingegneri e tecnici per questo nascente settore tecnologico.
Nel grande fermento di novità tecnologiche nacquero i primi brevetti legati all’elettricità e conseguentemente anche i primi sfruttamenti industriali. In quel periodo venne ideata la dinamo: il primo generatore elettromeccanico di elettricità.
Nel 1831 due fisici Michael Faraday (Inghilterra 1791-1867) (Vedi Fig.8) e Joseph Henry (USA 1797-1878) (Vedi Fig.9) notano che muovendo un conduttore, all’interno di un campo magnetico, si produceva ai suoi capi una corrente elettrica.
Lo scienziato Italiano Antonio Pacinotti (1841-1912), figlio di Luigi nonché professore di Fisica all’Università di Pisa dove lo stesso Antonio ottenne la laurea, dopo un breve periodo nel quale partecipò alla Guerra di Indipendenza, applicando i principi di cui sopra, ideò nel 1859 la prima macchina dinamica di tipo sperimentale (dinamo) generatrice di elettricità. La sua “macchina elettrica” (Vedi Fig.10 e Fig.11) era frutto di una intuizione avuta nel 1858 quando pensò di utilizzare un anello di ferro dolce, avvolto con del filo di rame posto a ruotare in un campo magnetico. (Noto come “Anello di Pacinotti”)
Fra l’altro, durante le sperimentazioni della sua dinamo, Pacinotti si rese subito conto che la macchina era reversibile. Infatti, nel 1869, collegando alla dinamo un accumulatore piombo-acido con il fine di caricarlo, si accorse che rilasciando la manovella di rotazione, quest’ultima si metteva a girare in senso contrario. Con questa osservazione scoprì che applicando una tensione elettrica alla dinamo il suo anello era in grado di produrre una coppia meccanica che lo portava in rotazione. La “macchina elettrica” da lui ideata era quindi in grado di funzionare sia da generatore che da motore.
Purtroppo, come spesso accade, lo scienziato italiano, che nel 1881 giunse a coprire la cattedra di fisica tecnologica all’università di Pisa, non diede importanza a questo generatore elettrico se non per scopi didattici e quindi non richiese nessun brevetto per il suo anello che qualche tempo dopo gli fu beffardamente e indegnamente usurpato dal Francese Gramme.
A tale proposito la storia narra che il Ministero della Marina Militare Italiana, incaricò Pacinotti di acquistare alcune apparecchiature scientifiche. Recatosi a Parigi entrò in contatto con il Direttore delle officine Fremont al quale parla della sua dinamo con lo scopo principale di convincerlo ad acquistarne i diritti.
Il Direttore si dimostra interessato e a questo punto presenta a Pacinotti il capo officina della Fremont; è un belga dal nome Zénobe-Théophile Gramme (4 aprile 1826 – 20 gennaio 1901) (Vedi Fig.12) con il quale può discutere del futuro sviluppo industriale della sua dinamo e ovviamente, anche del riconoscimento legale della sua invenzione.
A questo punto Pacinotti si sente appoggiato e comincia a fornire schemi, disegni, descrizioni e dimostrazioni del generatore da lui ideato. Per tutta risposta Gramme, in modo veramente indegno, rivendica suoi i diritti dell’invenzione e presenta nel 1869 un suo modello, corredato da una domanda di brevetto, già pronto per la produzione industriale.
Dopo avere ricevuto questa notizia Pacinotti cade nello sconforto più totale; per rivendicare la paternità del suo trovato scrisse e pubblicò una lettera di protesta all’Accademia francese delle Scienze. Tutto si rivelò inutile; nel 1871 Gramme ricevette dall’autorità francese l’attestato di privativa industriale della dinamo. (Vedi Fig.13 e Fig.14)
Ho voluto ricordare questa storia poiché spesso i nostri geni italici sono stati oggetto di umiliazioni e di imbrogli da parte di approfittatori nei quali purtroppo avevano riposto la loro fiducia (Vedi caso simile Meucci-Bell).
Fra l’altro, a conferma di quanto sopra specificato, tengo a precisare che nel caso di Gramme, come in altri casi, ciò che è stato prodotto non era propriamente “farina del suo sacco”. Infatti fra tutti i tipi di dinamo che Gramme presentò per ottenere i brevetti, solo due risultarono privi di errori concettuali e senza difetti funzionali e, guarda caso, questi ultimi, erano identici alla “macchina” di Pacinotti. (Vedi Fig.15)
A difesa di Pacinotti entrò in campo anche un nome importante come Werner Siemes; infatti, nella lettera che lo stesso Siemens inviò nel 1875 a Pacinotti, viene citata letteralmente come “usurpazione” l’azione di brevetto intrapresa dal francese Gramme.
Per una maggiore completezza dell’argomento è utile segnalare che anche altri inventori applicarono il loro “genio inventivo” per produrre in modo meccanico l’energia elettrica o al contrario utilizzare l’energia elettrica per produrre un moto meccanico ma rimasero casi isolati e comunque non riuscirono a portare le necessarie attenzioni del mondo scientifico alle loro invenzioni
Fra questi inventori il più sconosciuto è stato Johann Kravogl (Lana 24 maggio 1823 – Bressanone 1 gennaio 1889) (Vedi Fig.17); originario di Lana, un paese vicino a Merano in provincia di Bolzano. In solitudine ideò una macchina elettrica che chiamò “ruota elettrica” per la quale ottenne nel 1867 un brevetto.
Questo dispositivo visibile in Fig.18 fu presentato per la prima volta all’esposizione Mondiale di Parigi del 1867 destando l’interesse di un pioniere dell’elettrotecnica come Werner von Siemens e ottenendo persino il riconoscimento di una medaglia in bronzo. Ritengo utile segnalare che al Museo di Bolzano è conservata una delle quattro ruote elettriche di Kravogl; l’esemplare è funzionante.
Gli esperimenti sull’elettricità nella città di Milano
Ritornando a descrivere gli accadimenti “elettrici” che portarono l’attenzione sulla città di Milano è utile ricordare che il capoluogo lombardo fu oggetto di un esperimento di illuminazione elettrica.
Nella Piazza Duomo della già ricordata città lombarda fu innalzata una torre e nella notte tra il 17 e il 18 marzo del 1877 alcuni cittadini milanesi poterono assistere al primissimo, quasi misterioso, esperimento di illuminazione pubblica mediante la corrente elettrica.
Sulla sommità della torre erano state installate quattro lampade ad arco voltaico che illuminavano la grande piazza di una luce bianca; un giornale dell’epoca la descrisse come “L’emulatrice del sole”. (Vedi Fig.19)
La sera successiva, il 18, l’esperimento fu ripetuto; sulla stessa torre che la sera prima aveva mostrato ai pochi fortunati la meraviglia del progresso elettrico, l’illuminazione della piazza avvenne non più con quattro ma bensì con cinque lampade; questa volta alla presenza di una moltitudine di milanesi che erano accorsi per assistere all’esperimento stabilito per le ore 20. (Vedi Fig.20 e Fig.21)
Il generatore con la dinamo di Gramme era stato posto a una cinquantina di metri dalla torre per non disturbare con il fumo e con il rumore la folla presente.
Questi due episodi milanesi furono i primi e gli unici che dimostrarono le potenzialità della “luce elettrica”; infatti, per assistere nuovamente alla “emulatrice del sole” si dovette attendere sino al giugno del 1881. Trascorsero infatti quattro lunghi anni prima di vedere la galleria Vittorio Emanuele illuminata con 25 lampade ad arco della Siemens dalla sbalorditiva potenza complessiva di 20.000 candele. Le cronache dell’epoca narrano però che a causa della scarsa stabilità del flusso luminoso la dimostrazione non era stata pienamente soddisfacente ed inoltre ogni otto ore bisognava tenere spente le lampade per la sostituzione dei carboncini che si consumavano velocemente a causa dell’arco voltaico.
Gli esperimenti dimostrativi avevano confermato che era possibile illuminare elettricamente gli spazi di pubblica utilità ma un impiego massiccio dell’elettricità per l’illuminazione pubblica sembrava ancora molto lontano.
Non dimentichiamoci infatti che Milano, sin dal 1845, venne illuminata in modo progressivo utilizzando la rete del gas (il gas città) che rischiarava con appositi lampioni le vie e le piazze della città. L’accensione e lo spegnimento di questi lampioni veniva svolto dai “lampionee” tanto per citare e anche ricordare il nome di questi incaricati nell’oramai quasi scomparso dialetto milanese. (Vedi Fig.22)
L’ingegner Giuseppe Colombo, figura insigne e importante per l’evoluzione dell’elettricità a Milano
A sbloccare la situazione fu il noto Ing. Giuseppe Colombo (18 dic.1836 – 16 genn.1921) (Vedi Fig.23) che nella primavera dello stesso anno 1881 si era recato a Parigi per visionare la Mostra Internazionale dell’Elettricità dove si trovava esposto il sistema elettrico di Edison.
Vale la pena spendere due parole sulla biografia e sull’opera dell’ing. Colombo in quanto oltre a combattere nella seconda guerra di indipendenza come Patriota (1859) fu una figura insigne e lungimirante per la città di Milano. Grazie al suo intuito, il capoluogo lombardo divenne una della prime città europee dotata di illuminazione pubblica elettrica.
Laureatosi ingegnere a soli vent’anni ricoprì dal 1865 al 1911 la cattedra di meccanica e ingegneria industriale nell’ateneo che a quei tempi si chiamava “Istituto tecnico superiore di Milano” e che sarà successivamente rinominato Politecnico di Milano. Pongo in evidenza che tra i suoi alunni vi furono personaggi importanti come: Giovanni Battista Pirelli, industriale della gomma, Enrico Forlanini, pioniere dell’aviazione italiana e Giacinto Motta che fu docente e fondatore del Politecnico di Milano nonché suo successore alla direzione della Edison.
Chiudo la breve parentesi biografica riallacciandomi al discorso iniziato con la rinomata società americana fondata da Edison con il quale l’ing. Colombo ebbe i primi contatti nella già sopracitata Mostra Internazionale dell’Elettricità nella quale era presente la Compagnie Continental Edison con sede a Parigi. Questa compagnia, che curava non solo gli interessi di Edison in Francia ma in tutta Europa, venne interpellata dall’ing. Colombo per addivenire alla cessione a buon prezzo dei macchinari che la stessa Edison aveva portato a Parigi per l’Esposizione. Infatti, nell’autunno del 1881, a seguito della preziosa opera di Colombo, venne costituito a Milano il “Comitato promotore per le applicazioni dell’energia elettrica in Italia” il cui finanziamento venne garantito con l’intermediazione di grossi istituti di credito.
Nel 1882 il neonato comitato promotore con l’aiuto di uno dei collaboratori di Edison dal nome A.G. Acheson proposero alcune dimostrazioni “elettriche”; i macchinari utilizzati furono quelli sopracitati che l’ing. Colombo acquistò all’esposizione internazionale di Parigi nel 1881. (Vedi Fig.24)
Colombo rimase molto colpito dalle potenzialità della Edison e così l’anno successivo nel settembre del 1882 si reca a New York negli stati uniti d’America per assistere alla messa in servizio della prima centrale elettrica del mondo che la Edison Illuminating Company aveva costruito a Pearl Street nel famoso quartiere finanziario di Wall Street (distretto di Manhattan).
A Milano, vicino al Duomo, nasce la centrale di Santa Radegonda, il primo progetto di centrale termoelettrica dell’Europa continentale a sistema Edison
Dopo questa magnifica esperienza, Colombo ritornò in Italia con un progetto di una centrale termoelettrica per la città di Milano, la prima dell’Europa continentale e la seconda al mondo, che utilizzava il sistema Edison. È utile ricordare che il progetto venne approvato dallo stesso Edison in occasione del viaggio che Colombo fece a New York.
A completamento delle informazioni in merito a quale sia stata la prima centrale elettrica europea, riporto la notizia che fu senza dubbio la “Holborn Viaduct”. La citata centrale, che utilizzava il sistema Edison, venne costruita in Inghilterra e fu pensata per la sola illuminazione stradale. Infatti, quando entrò in servizio nel 1882, a differenza di quella costruita a Milano, oltre ad avere una potenza installata sensibilmente minore, non aveva una rete propria di distribuzione in quanto doveva illuminare il solo viadotto Holborn Viaduct da cui aveva ereditato il nome.
Per quanto riguarda invece il capoluogo lombardo, dopo l’intervento incisivo di Colombo, venne stabilita la costruzione di una centrale elettrica vicino al Duomo, in quanto, in quella zona di Milano, erano ivi presenti gli esercizi commerciali più facoltosi, importanti e rinomati della città.
Per rispettare queste direttive venne individuata un’area compresa fra le vie di Santa Radegonda e Agnello che era vicinissima al fianco sinistro del Duomo. (Vedi Fig.25)
Il progetto prese vita con l’acquisto dei locali del teatro di Santa Radegonda (Vedi Fig.26) che oramai erano in disuso da anni; l’edificio fu demolito nel corso del 1882-83 e al suo posto venne costruito un nuovo edificio che prevedeva di istallare al primo piano le caldaie e al piano terra le dinamo e le macchine a vapore di tipo alternativo. (Vedi Fig.27)
Per scaricare in atmosfera i fumi di combustione delle caldaie a carbone del tipo Babcock & Wilcox a tubi vaporizzatori suborizzontali fu eretta una grande ciminiera di mattoni alta ben 52 metri. Nella fotografia di Fig.28 si nota chiaramente questo manufatto nella sua imponente forma tronco-conica che svetta al fianco della imponente sagoma del Duomo di Milano.
I lavori della erigenda centrale termoelettrica milanese furono diretti e portati a completamento da uno dei migliori assistenti di Edison: John William Lieb che il nostro ing. Colombo si era portato in Italia durante il viaggio di rientro da New York.
La centrale termoelettrica di S. Radegonda entrò in servizio l’8 marzo 1883 con la messa in tensione a 110 volt in corrente continua, della neonata rete elettrica milanese. (Vedi Fig.29)
I primordiali “cavi” che facevano parte della rete elettrica sotterranea cittadina milanese, erano stati costruiti utilizzando tubi di ferro al cui interno trovavano posto due sbarre semicircolari di rame; i conduttori venivano isolati fra loro immettendo nel rimanente spazio interno del tubo una apposita miscela dielettrica. I tubi di ferro a questo punto venivano interrati e per congiungerli fra loro venivano impiegate delle cassette di giunzione che venivano riempite con la stessa miscela isolante utilizzata per i “cavi”. Con questa operazione si riteneva di evitare, per quanto possibile, i danni causati dall’ingresso dell’acqua e dell’umidità nelle giunzioni sotterranee. (Vedi Fig.30)
L’inaugurazione ufficiale della centrale di S. Radegonda avvenne il 28 giugno; in quell’occasione vennero accese le lampade del teatro Manzoni sito in piazza San Fedele.
La potenza elettrica complessiva che dovevano fornire le quattro dinamo tipo C. costruite dalla Edison era di circa 400 Kw; infatti la centrale elettrica era stata calcolata per accendere 4800 lampade Edison tipo A da 16 candele; il consumo in corrente di ogni singola lampada, alimentata a 110 Volt, era di circa 0,75 ampere. Le dinamo Jumbo di Edison dovevano quindi fornire per ciascuna macchina una ragguardevole corrente di circa 900 Ampere con una potenza di quasi 100kW che all’epoca era considerata una grande potenza. Se invece pensiamo alla potenza elettrica che attualmente viene immessa nella rete elettrica Nazionale (stiamo parlando di Gw!) e a quella fornita dalla centrale milanese non c’è veramente nessun paragone ma per i mezzi e per i parametri di allora la centrale di S. Radegonda era considerato un impianto di notevole potenza. Il sistema Edison riscosse infatti un considerevole successo principalmente per merito delle caratteristiche di potenza delle sue dinamo che, per il motivo appena citato, erano state soprannominate “Jumbo”. Singolarmente esse fornivano una tensione di 110-120 Volt con una corrente di 850 ampere necessari ad alimentare circa 1200 lampade. (Vedi Fig.31)
I limiti della centrale di S. Radegonda, del sistema Edison e la successiva espansione della rete elettrica milanese
La rotazione di queste macchine elettriche era possibile grazie ai potenti motori alternativi che venivano alimentai dal vapore prodotto dalle caldaie a carbone; il lavoro dinamico sviluppato da ogni motore accoppiato a un singolo generatore di Edison era grossomodo di 140 cavalli vapore a una rotazione di 350 giri al minuto primo che all’epoca era considerata una velocità veramente sbalorditiva.
In controtendenza a tutto questo fermento innovativo-tecnologico bisogna riscontrare che il primo impianto di produzione dell’energia elettrica di via S. Radegonda, così come era stato progettato durò veramente molto poco. Due anni dopo la costruzione della centrale di S. Radegonda l’impianto fu potenziato con otto potenti dinamo del tipo Thomson-Houston che furono esclusivamente dedicate all’alimentazione delle lampade ad arco stradali in quanto, la società Edison, acquisì dal Comune l’incarico di illuminare le vie di Milano. Il sistema di Edison a corrente continua aveva infatti il grande limite di non permettere il trasporto dell’energia a distanza. Il problema venne risolto con l’avanzare della nuova tecnologia messa a disposizione dagli impianti a corrente alternata che a differenza del sistema di Edison a corrente continua permettevano il trasporto a grandi distanze della corrente elettrica. Nel 1898 infatti nei vicini locali di via Agnello vennero istallati un gruppo di convertitori rotanti che trasformavano la corrente alternata proveniente dall’impianto idroelettrico di Paderno d’Adda in corrente continua. Il sistema ideato da Edison divenne quindi ben presto inutilizzabile oltre che obsoleto e venne così soppiantato dal nuovo sistema elettrico trifase a corrente alternata. Nel 1926 l’impianto produttivo di S. Radegonda venne definitivamente demolito e al suo posto venne edificato il teatro Odeon; per ricordare ai cittadini milanesi questa centrale, nel centenario di costruzione dell’impianto, è stata posta una lapide commemorativa. (Vedi Fig.32)
A questo punto era mia intenzione fornire ai lettori la testimonianza della successiva espansione della rete elettrica cittadina milanese in modo da poter stabilire con assoluta certezza in quale anno la chiesa di S. Stefano Maggiore e il relativo organo a canne, oggetto della mia ricerca, fosse stata allacciata alla nascente rete elettrica cittadina di Milano. Questa certezza poteva derivare solo consultando gli archivi delle due principali aziende storiche (Edison e AEM) che hanno posato le linee elettriche a Milano. Quantunque io abbia fatto esplicita richiesta scritta al Presidente del comitato scientifico della Fondazione Edison di poter consultare a tale scopo i documenti storici depositati nei rispettivi archivi, non mi è pervenuta nemmeno la più misera risposta.
Pertanto, con la mia più grande delusione e sommo dispiacere, in mancanza della documentazione necessaria, ho dovuto rinunciare a descrivere in questa sede quanto era nelle mie più serie intenzioni.
La Fondazione AEM (attuale gruppo a2a), diversamente da Edison ha invece risposto positivamente alla richiesta scritta che ho inoltrato al presidente Prof. Alberto Martinelli; infatti, il Prof. Fabrizio Trisoglio, Responsabile scientifico di Fondazione AEM – Gruppo a2a – mi aveva subito confermato la disponibilità a un incontro conoscitivo che ho effettuato il giorno 7 Novembre 2019.
Purtroppo durante il colloquio con il gentile Prof. Trisoglio è emerso che nell’archivio storico della fondazione non è presente la documentazione utile alla mia ricerca che comunque, anche se priva di quanto sopra specificato, rappresenta pur sempre un interessante documento storico.
Nasce a Milano, agli inizi del ‘900,
il primo organo ad alimentazione elettrica
collegato alla prima centrale termoelettrica dell’Europa continentale
Dopo la descrizione di tutta questa vicenda che ha permesso di stabilire il primato elettrico-tecnologico della città di Milano e l’importanza della nascita della rete elettrica pubblica cittadina, possiamo iniziare un secondo racconto: quello che concerne la storia del primo organo ad alimentazione elettrica d’Italia che, come abbiamo anticipato, fu portato a completamento dalla prestigiosa “Fabbrica d’Organi Fratelli Aletti” di Monza.
Su questo tema esorto a porre la massima attenzione in quanto tengo a precisare che Milano non solo è stata la prima città dell’Europa continentale ad avere una centrale termoelettrica ma anche ad avere, proprio a due passi da questo sito produttivo, il primo organo a canne ad alimentazione elettrica d’Italia.
Pongo inoltre in evidenza che i due primati sono senza dubbio estremamente legati fra loro in quanto se non vi fosse stata la rete elettrica cittadina che già a inizio 900 era per Milano non solo una estesa realtà ma anche una assoluta certezza di sviluppo futuro, non si sarebbe nemmeno potuto pensare di costruire un organo a canne e allacciarlo alla omonima rete elettrica Milanese.
Infatti, l’organo a canne di cui parleremo, a differenza della oramai demolita centrale elettrica di S. Radegonda, è invece ancora dopo tanti anni una realtà in quanto è tutt’ora presente nella Basilica di Santo Stefano Maggiore a Milano: un edificio ecclesiastico sito nella omonima Piazza S. Stefano (Vedi Fig.33).
Il luogo di culto è estremamente vicino a dove sorgeva la centrale di Via S. Radegonda; a testimonianza di questa estrema vicinanza in Figura 34 è possibile osservare lo stralcio di una mappa di Milano del 1894 dove sono evidenziati gli edifici interessati, il Duomo di Milano e persino lo stabile della Società Edison.
L’importanza fondamentale della rete elettrica milanese nello sviluppo tecnologico dell’organaria
Le notizie riguardanti questo importante organo a canne che ha aperto la strada e ha permesso lo sviluppo dell’organaria elettrica in Italia, erano oramai dimenticate da tutti. È solo per un caso fortuito se sono venuto a sapere quali erano le particolarità tecnologiche dell’organo Aletti di S. Stefano; lo stesso Enrico Aletti (Vedi Fig.35), ultimo titolare della omonima ditta, me ne aveva parlato direttamente in quanto ho avuto non solo la grande fortuna di averlo conosciuto ma anche quella di averlo frequentato personalmente.
È stato proprio lui a riferirmi che lo strumento era del 1903, che aveva due consolle elettriche di comando (caso sicuramente unico in Italia per l’epoca) e che purtroppo era in uno stato di semiabbandono (Vedi Fig.36 e Fig.37).
La certezza delle parole riferitemi da Enrico Aletti sono state ulteriormente confermate dal recente ritrovamento nell’archivio rimasto di questa prestigiosa ditta organaria lombarda, di un libretto dell’epoca (Vedi Fig.38 e Fig.39) nel quale è stato possibile constatare la presenza delle stesse notizie inerenti l’organo di S. Stefano Maggiore che avevo sentito più volte narrare da ragazzo quando Enrico entrava nell’argomento dell’organaria elettrica.
Inoltre, durante la ricerca della documentazione sopracitata, è stato rinvenuto anche un catalogo della ditta Fratelli Aletti databile anni ’30 che riporta una menzione dalla quale si evincono le stesse vicende inerenti l’organo di S. Stefano specificate nel libretto di cui sopra (Vedi Fig.40 e Fig41).
Un organo finalmente “libero dalla schiavitù delle pile e senza l’ausilio della trasmissione pneumatica” ancora esistente nel 2020
Questo organo a trasmissione elettrica (Vedi Fig.42) ha sempre suscitato in me un certo alone di mistero in quanto in tanti anni non ho mai potuto fotografare o constatare di persona come erano state formate le parti elettriche, i collegamenti, i contatti, tutta la parte degli elettromagneti e soprattutto se le parti originali fossero state sostituite o modificate.
Nel 2018, quando ho potuto constatare di persona lo stato conservativo dell’organo, sono rimasto sbalordito a tal punto da non credere in tutto ciò che stavano vedendo davanti ai miei stessi occhi poiché, la gran parte della componentistica “elettrica” dello strumento, è stata rinvenuta miracolosamente conservata nello stato originale del 1903!
Le fotografie che troverete qui sotto, corredate da una abbondante descrizione, rappresentano senza dubbio alcuno la parte più eloquente di questa mia “visita” conoscitiva effettuata al singolare, originale e importante strumento di Aletti che purtroppo oggi versa in condizioni a dir poco disastrose (Vedi Fig.43, Fig.44, Fig.45, Fig.46, Fig.47, Fig.48, Fig.49, Fig.50, Fig.51, Fig.52, Fig.53 e Fig.54).
Cenni storici sul primo utilizzo sperimentale dell’alimentazione elettrica che la ditta “Fratelli Aletti” applicò a Monza negli organi a canne
L’archivio rimasto della ditta Aletti ha infine fornito anche la documentazione riguardante l’organo sito nella chiesa della S.S Trinità di Monza detta anche degli “Artigianelli”. Come ho anticipato nella parte iniziale di questo articolo, l’organo a trasmissione elettrica degli Artigianelli fu l’organo nel quale gli Aletti effettuarono i primi esperimenti utilizzando nel 1899, per la prima volta, l’alimentazione elettrica cittadina monzese per attivare gli elettromagneti di questo organo. In merito al citato argomento alcuni di voi potrebbero sollevare il dubbio che Monza in quegli anni fosse sprovvista di corrente elettrica. A tale riguardo, per confermare queste mie parole, posso riferire che nella città di Monza proprio dall’anno 1899 entrò in funzione un sistema di illuminazione pubblica elettrico. La testata giornalistica di Monza appena nata “Il Cittadino” ne riporta infatti la notizia nel numero di giovedì 5 gennaio 1899 in un articolo apparso fra le colonne della cronaca cittadina che qui allego (Vedi Fig.55). Faccio presente che il testo dell’articolo riporta l’anno 1889 ma è da considerarsi un refuso poiché questa testata giornalistica, ancora oggi molto conosciuta in Brianza, iniziò la sua attività editoriale proprio nel 1899.
La documentazione che qui allego si riferisce al successivo restauro dello strumento che venne compiuto, sempre per mano della Fratelli Aletti, nel 1928. Il 10 luglio dello stesso anno l’arcinoto Don Pietro Magri, organista titolare del Santuario di Oropa, ne effettuò il collaudo rendendo noti i risultati tramite uno scritto che venne pubblicato nel pieghevole qui allegato (Vedi Fig.56 e Fig.57).
Partendo dal primo esperimento effettuato nel 1899 gli Aletti seppero progettare e realizzare nel 1903 il primo organo ad alimentazione elettrica d’Italia proseguendo negli anni successivi a utilizzare questo sistema che migliorò sempre più negli anni sino a diventare non solo una certezza ma soprattutto una grande realtà (Vedi Fig.58).
A completamento dell’articolo mi sia ora permesso di esternare alcune mie considerazioni in merito alla “Fabbrica d’Organi Fratelli Aletti” di Monza in quanto sono convinto che sia stata per troppo tempo dimenticatadagli storici, dagli organologi e dagli stessi organisti mentre invece, per quanto mi riguarda, deve meritare un posto d’onore nell’organaria italiana.
Fratelli Aletti, la storia dell’azienda più innovatrice dell’arte organaria italiana
Parlare di Enrico Aletti (11 aprile 1910 – 31 maggio 1981) in qualità di innovatore è per me una cosa abbastanza normale poiché Enrico lo era veramente! A dire la verità tutta la ditta Aletti era improntata a questa ultima particolarità: l’innovazione. Nei libretti pubblicitari dell’epoca, fatti stampare dalla ditta Aletti, questa caratteristica era messa sempre in grande evidenza tanto da averne costituito un po’ il proprio “marchio di fabbrica”. Infatti, in modo particolare, i titolari erano sicuri e credevano tenacemente nell’innovazione elettrica applicata agli organi; convinzione, sostenevo, che si è poi rivelata profetica, poiché il successivo sviluppo tecnologico organario è proseguito in questa direzione. Gli Aletti furono infatti i primi in assoluto nel 1899 (almeno per l’Italia) a sperimentare l’utilizzo di una dinamo per l’alimentazione degli elettromagneti. Per capire la grandissima importanza di questa applicazione bisogna considerare che a quei tempi, i pochi organi elettrici costruiti, funzionavano con numerose e costose pile che, una volta scariche, dovevano essere sostituite! Forti di questo primo esperimento, nel 1903 progettarono e costruirono nella chiesa di S. Stefano Maggiore a Milano il primo organo ad alimentazione elettrica d’Italia, liberando definitivamente gli organi dalla dipendenza delle pile (Vedi Fig.59).
Enrico Aletti proseguì nella direzione intrapresa dai precedenti titolari, suoi famigliari, brevettando nel 1939 il primo organo Elettronico italiano funzionante con lampade a gas inerte. Il geniale innovatore, quale era Enrico Aletti, non si fermò a questo progetto perché, proseguendo negli studi e negli esperimenti, pensò di utilizzare, per la formazione di note musicali, le armoniche di un diapason (scomposizione in serie di Fourier) posto in eccitazione continua (Elettrodiapason ad autoeccitazione). Ma questo non bastò, poiché fece anche alcuni esperimenti per generare le note musicali in modo elettronico, con un disco forato e una cellula fotoelettrica emittente, sensibile alla luce. In sintesi tutta l’esistenza della ditta Aletti è basata sulla ricerca sistematica e continua di innovare e modernizzare la propria produzione. Peccato che durante la seconda guerra mondiale la ditta Aletti fu bombardata; infatti, per ovvie ragioni logistiche, aveva i propri laboratori attigui alla stazione ferroviaria e durante il conflitto, questi siti, erano gli obbiettivi principali dei bombardieri alleati. Nel dopo guerra, la ditta Aletti, non trovò la forza necessaria per risollevarsi e chiuse i battenti nel 1947 dopo un secolo di attività. Personalmente ritengo che se la ditta Fratelli Aletti avesse continuato nell’attività di produzione di organi, avremmo potuto vedere altre geniali innovazioni. Per quanti desiderino approfondire l’argomento su questo particolare tema si veda il mio libro: “Enrico Aletti e la storia inedita del primo organo elettronico Italiano”.
L’influenza delle innovazioni della ditta Aletti sull’organaria moderna
Da quanto ho sinora esposto, personalmente sono convinto che la ditta Aletti debba essere attentamente rivalutata dagli storici che si occupano del settore, per il contributo tecnologico e per la produzione organaria che è stata in grado di mettere in atto in 100 anni di attività. La motivazione di questa mia convinzione scaturisce da una serie di fattori che ho attentamente analizzato e che ora mi accingo a descrivere in sei punti distinti:
1°- La ditta Aletti durante un secolo di attività organaria ha lavorato a 600 organi in tutta Italia e anche all’estero.
2°- Già dal 1896 aveva studiato e brevettato un sistema per l’inserzione pneumatica dei registri.
3°- Nel 1899 fu la prima ditta organaria italiana ad applicare la dinamo per l’alimentazione degli elettromagneti (organo degli Artigianelli Monza).
4°- Forte delle esperienze elettriche acquisite già realizzate nel 1899, la ditta Aletti nel 1903 progetta e costruisce in una chiesa situata nel pieno centro storico di Milano (chiesa di S. Stefano Maggiore) il primo organo ad alimentazione elettrica d’Italia
5°- Nel 1939 Enrico Aletti brevetta il primo organo elettronico italiano dotato di oscillatori funzionanti con lampade a gas inerte (Brev. N°378.223)
6°- Successivamente a questo brevetto vengono studiati e sperimentati altri sistemi per la generazione di note in modo elettronico: il primo utilizzando diapason autoeccitati (elettrodiapason) e il secondo con un disco forato e cellula fotoelettrica.
Credo che questi brevi accenni, alcuni dei quali assolutamente poco noti, bastino a convincere il lettore che la ditta Aletti debba certamente meritare di essere collocata ai primi posti nella storia organaria nazionale. Nessun dubbio nasce a tale riguardo per collocare questa importante ditta organaria italiana ai primi posti nell’avere influenzato, con i suoi strumenti, in modo certamente positivo e indelebile, l’organaria moderna nel nostro Paese. Le fotografie qui riportate, del primo organo ad alimentazione elettrica d’Italia, sono state scattate dal sottoscritto il 16 marzo 2018, grazie all’interessamento presso la Curia milanese di un caro amico: Maurizio Martini che, venuto a conoscenza della mia prima “vicenda fotografica” non del tutto positiva, si è prodigato in ogni modo per agevolarne l’autorizzazione. Il successivo intervento risolutivo di Mons. Claudio Magnoli, responsabile del Servizio diocesano per la Pastorale liturgica milanese, unito al benestare del Parroco pro tempore di S. Stefano Don Alberto Vitali, mi hanno permesso di portare a compimento tutto il servizio fotografico nel giro di brevissimo tempo. A tutte le persone coinvolte in questa vicenda devo la mia personale gratitudine per avermi aiutato e favorito in ogni operazione, nel raccogliere una preziosa e sconosciuta testimonianza che sarebbe altrimenti andata persa per sempre.
Auspico infine che questo strumento: l’organo Aletti di S. Stefano Maggiore, venga tutelato, conservato e restaurato perfettamente nelle condizioni originali poiché, non solo è stato il primo organo ad alimentazione elettrica d’Italia ma è rimasto per più di un secolo dalla sua costruzione miracolosamente intatto permettendo di rappresentare ancora oggi l’anello di congiunzione fra l’arte organaria del passato e l’arte organaria del presente.
A voi tutti che mi avete pazientemente seguito leggendo questo mio scritto rivolgo il mio accorato ringraziamento, nella speranza di avervi trasmesso l’interesse e il piacere di conoscere un piccolo frammento di storia tecnologica italiana che, disgraziatamente, risulta sempre più trascurata e misconosciuta, in quello che fu il Paese da tutti considerato: “il giardino dell’arte e della musica”.
Complimenti, contributo molto interessante. Competenza e passione, bravissimo. Senza dimenticare la meritoria opera di divulgazione di aspetti organologici di un’epoca troppo spesso liquidata in maniera sbrigativa e semplicistica.
Carissimo Stefano Oddi il tuo messaggio non fa la più piccola grinza! Chissà perché nel nostro Paese si sono scritte cataste di libri che trattano solamente l’organo meccanico (sono uno la fotocopia dell’altro…) e non si è mai speso una sola parola per valutare attentamente le innovazioni tecnologiche dell’organo a canne a trasmissione elettrica. Pensa a quante applicazioni, a quante comodità e a quanta minore fatica fisica l’elettricità abbia portato all’uomo. L’elettricità ha permesso, al pari della leva di Barker, di costruire i più grandi organi che i nostri antenati si sarebbero mai sognati di costruire. Organi immensi, dotati di più consolle o di consolle spostabili grazie alla digitalizzazione e grazie all’elettricità mentre invece la perenne miopia nostrana, rivolta esclusivamente e ciecamente all’organo meccanico antico, ha fatto in modo di escludere e anche di valutare quali siano state le innovazioni positive portate dalla tecnologia elettrica all’organaria. Tutto il ramo tecnologico elettrico italiano è stato ignorato dagli organologi che sono stati talmente occupati e complici di questa grave mancanza, nell’avere descritto l’organo meccanico antico quale massima espressione dell’organaria italiana, mentre invece la storia, per quanto mi riguarda, deve essere acquisita completamente! Aletti a mio avviso è stato il pioniere italiano di tutto questo; deve essere rivalutato, riconsiderato e messo certamente ai primi posti quale precursore e fautore dell’organaria moderna. Aver lavorato a 600 organi in un secolo di attività non è certamente cosa di poco conto (se fai il rapporto è un organo ogni due mesi…) ecco perché, al di là dell’innovazione elettrica in cui credeva fermamente, mi sono sempre prodigato a contrastare la poca o nulla valutazione di questa sconosciuta e per certi versi misteriosa ditta organaria italiana che, per i meriti innovativi applicati all’organo, deve avere il suo meritato spazio nella storia organaria del nostro Paese. Fra l’altro, questi esperti, (gli organologi) non si sono mai posti il problema che, allacciati alla rete elettrica, vi sono migliaia di organi in tutto il mondo… vengono comandati da consolle che sono anche molto distanti dal corpo organo. Serassi, nella sua intelligenza, si era posto il problema della distanza costruendo a S. Alessandro in colonna (Bergamo) un organo dalla meccanica lunga più di trenta metri. Alla resa dei conti la battaglia su questo fronte la vinse indubbiamente l’organo a trasmissione elettrica; gli organi italiani dalla lunga meccanica sotterranea si contano sulle dita di una sola mano (e denotano sempre problemi di funzionamento) mentre invece, quelli alimentati dalla corrente elettrica, come ho anticipato, sono a migliaia in tutto il mondo ma di questo “insignificante” particolare, non se n’è mai occupato nessuno… Ringraziandoti per il cortese messaggio ti esprimo con vero piacere i miei più cordiali saluti. Serafino Corno.
Non ho parole per ringraziarti e per la competenza, la meticolosità, la chiarezza espositiva e la passione che trapelano da questo articolo.
Caro Serafino non finisci di sbalordirmi.
Bravo!
Carissimo Gabriele Manarini
Anche se con grande ritardo rispondo più che volentieri al tuo cortese messaggio. Come ben sai le mie ricerche storiche sono, in buona sostanza, il risultato della mia grande passione per tutto ciò che riguarda l’elettricità, le invenzioni e le relative innovazioni storiche che vennero applicate in questo settore. L’articolo che hai letto dimostra il legame tecnologico che è esistito fra la prima rete elettrica cittadina milanese e il primo organo ad alimentazione elettrica d’Italia che, come hai potuto leggere, la ditta Aletti realizzò nel pieno centro storico di Milano. Senza la costruzione della centrale di S. Radegonda e senza la rete elettrica cittadina non si sarebbe potuto nemmeno pensare di alimentare gli organi a canne con la “corrente stradale”: termine coniato in un’epoca in cui cominciava ad affermarsi questo sistema.
Sono proprio contento che l’articolo sia stato di tuo gradimento, per me già questo è una grande soddisfazione in quanto sono riuscito a trasmetterti le mie stesse emozioni che ho provato durante la scrittura!
Ringraziandoti per la tua sempre presente attenzione colgo l’occasione per esprimere a voi tutti i miei più cordiali saluti.
Serafino
Bravo Serafino,sono rimasto piacevolmente colpito da quanto ho letto, si vede che lo fai con amore e passione. Sei riuscito a coinvolgermi nella lettura del testo. Ho iniziato a leggere per curiosità ma pagina dopo pagina ,mi hai fatto capire quanto lavoro e studio ci sono dietro alla realizzazione di un organo. Adesso che ti ho conosciuto anche come storiografo ti seguirò sempre. Grazie
Carissimo Luigi Bosisio
Lo so che la mia risposta è “piuttosto tardiva” ma volevo porre rimedio in questo momento esternandoti con piacere il mio ringraziamento e la mia soddisfazione per il tuo apprezzamento alla mia ricerca storica. Ho iniziato a scrivere l’articolo lo scorso 2019 nel mese di agosto dopo avere effettuato una ricerca storica che, a causa del ridotto tempo libero a mia disposizione, è durata alcuni mesi. Il fatto più rilevante del lavoro di ricerca svolto è l’avere riportato la necessaria attenzione su questo importante strumento che, a tutti gli effetti, ha aperto la strada allo sviluppo dell’organaria elettrica in Italia e del quale si era persa completamente la memoria storica. Purtroppo nessuno studioso organologo o storico dell’organo ha mai valutato seriamente sino ad ora l’applicazione che fece Aletti nel 1903; era tesa a liberare definitivamente questi strumenti dal grave peso economico in termini di esercizio e di durata.
Progettare e costruire un organo che funzioni correttamente e che duri nel tempo, come hai potuto costatare, non è assolutamente cosa facile; ti lascio immaginare cosa poteva essere stato per la ditta Aletti a inizio ‘900…. un’epoca in cui la tecnologia elettrica era ancora a livello pionieristico. Fra l’altro, non va certamente dimenticato che il progetto di questo particolare organo a canne, era stato previsto per funzionare non da una ma da due consolle; ho ben pochi dubbi che fosse per l’epoca il primo caso in Italia.
Ai miei ringraziamenti per il tuo gentile commento, unisco ed esprimo con piacere i più cordiali saluti a voi tutti.
Serafino