Il desiderio più grande di Enrico Aletti era quello di produrre i suoni per gli organi in modo “economico”, perché quelli a canne richiedevano un notevole impegno di manodopera ed erano molto costosi.
Questi grossi problemi lo obbligavano a costruire strumenti in modo artigianale, e non industriale, come avrebbe tanto voluto. Quindi pensava di utilizzare la tecnologia elettronica allora esistente per aggirare il problema dei costi/manodopera, ma i tempi per applicare questa regola che, come tutti sanno, si è poi rivelata l’arma vincente dei nostri giorni, erano troppo prematuri.
Anche in questo caso ho collegato i miei ricordi di gioventù, passati a diretto contatto con il protagonista di questo scritto, le “scartoffie” citate pocanzi ed il materiale superstite donatomi dai figli.
Cominciamo con il dire che Aletti Enrico, nella sua ricerca continua per produrre suoni a frequenza acustica, in modo diverso da quello naturale, si ispirò questa volta alla luce e ad una fotocellula. (Vedi Fig.1) Molti di voi che hanno letto i miei precedenti articoli si chiederanno sicuramente il perché di tutte queste sue ostinate e quanto mai strane ideee di voler produrre suoni in modo diverso dal naturale. Conoscendolo bene vi posso assicurare che il nostro Enrico aveva fatto “bene i conti” perché sino dai suoi primi esperimenti egli intravedeva in questo suo pensiero il futuro della propria ditta, il suo solo “errore”, se così si può chiamare, era stato quello di precorrere troppo i tempi. Infatti il desiderio più grande di Aletti Enrico era quello di riuscire a produrre i suoni in modo “economico” perché gli organi reali e cioè quelli con le canne vere, oltre a costare molto, richiedevano un notevole impegno di manodopera sia diversificata che molto specializzata. Questi grandi problemi lo obbligavano a costruire i suoi strumenti in modo artigianale e non industriale come avrebbe tanto voluto. Il suo sogno era ed e’ sempre stato quello di avviare una produzione in serie piccoli strumenti elettronici di basso costo per la grande massa e questa ultima cosa mi era stata esternata molto chiaramente in uno dei suoi discorsi dove mi aveva anche riferito di volere realizzare addirittura un modello in scatola di montaggio. Da quanto sinora scritto e’ quindi evidente che Aletti Enrico pensava già a quei tempi di utilizzare la tecnologia elettronica allora esistente per aggirare il problema dei costi/manodopera ma i tempi per applicare questa regola, come ho affermato in precedenza (che come sanno tutti e’ poi stata l’arma vincente dei nostri giorni), era troppo prematura.
Dopo questa breve ma necessaria parentesi esplicativa possiamo addentrarci nella descrizione di questo ultimo sistema per generare suoni a frequenza acustica che sono in sostanza il frutto dell’unione fra elettronica e meccanica.
Quindi ritornando a quanto anticipato ho finalmente ultimato il riordino dell’archivio Aletti; la novità annunciata però non è certamente questa ma quella che nel fare questa operazione mi sono passati tra le mani due certificati di collaudo risalenti al 1904 del nuovo organo Aletti costruito per la cappella dell’istituto di S. Benedetto a Parma. (Vedi Fig.2)
Sin qui nulla di speciale ma durante la lettura di questi documenti si intravedeva nella parte frontale un rilievo rossastro proveniente dalla parte retrostante. Infatti rivoltando i due fogli ho così scoperto che il retro era completamente manoscritto con una matita rossa e blu’ dalla inconfondibile calligrafia di Aletti Enrico. (Vedi Fig.3 e 4) Leggendo attentamente quanto vi era scritto (e non nascondo con una certa ansia) e’ risultato che gli appunti e le formule erano inerenti alla cellula fotoelettrica e ciò si evince chiaramente dalla scrittura bluastra che riporta infatti “Caratteristiche di cella”. (Vedi Fig.3)
Dalla lettura di questi due fogli mi sono poi ricordato di avere letto qualche cosa di inerente a celle anche su un altro fogliettino che però avevo già archiviato da alcuni mesi con tutto il resto della documentazione. Quando ho trovato questo fogliettino ho effettivamente verificato che ricordavo bene, su di esso c’era proprio una frase manoscritta, sempre da Aletti Enrico, sulla cella fotoelettrica impiegata per generare suoni. Su questo fogliettino infatti (Vedi Fig.5) si legge chiaramente: “la produzione di corrente alternata per gli elettrofoni e’ stata ottenuta con i seguenti procedimenti principali:” a),b),c),d), di cui al punto C), specifica: “con cellule fotoelettriche.
Durante l’archiviazione di questo fogliettino mi era ritornata la memoria sui racconti inerenti le prove effettuate dal nostro “sperimentatore Brianzolo” ascoltati direttamente dalla sua voce, ma non avendo documentazione sufficiente per dimostrare questo, ho preferito soprassedere. Con il ritrovamento di questi due certificati di collaudo aventi la parte retrostante manoscritta ho quindi avuto la possibilità di essere sicuro che ciò che ricordavo non era certamente frutto della mia fantasia. Questa certezza era poi ulteriormente confermata dal materiale superstite ritrovato in una scatola che i figli di Enrico, Giovanni ed Angela, mi avevano donato qualche anno fa’ il cui contenuto era un disco di zinco forato ed una strana valvola rivelatasi poi proprio una cellula fotoelettrica. (Vedi Fig.6 e 7)
Quindi tutto quadrava, dovevo però ancora esaminare bene il contenuto della predetta scatola per essere sicuro che effettivamente il disco forato e la fotocellula, anche se uniti nello stesso imballo, non facessero parte di due esperimenti diversi visto anche che l’apparecchiatura utilizzata per questi studi e’ andata purtroppo dispersa. Per fare questo dovevo quindi scoprire cosa Aletti Enrico avesse intenzione di fare o cosa avesse fatto per generare una precisa frequenza acustica da utilizzare per riprodurre note musicali tramite l’impiego di una fotocellula; in poche parole dovevo scoprirne il modo di funzionamento del disco/fotocellula. In merito a questo argomento penso sia chiaro a tutti che il numero di fori esistenti sul disco crea una interruzione del flusso di una sorgente luminosa continua (p.es. una lampadina) rilevato da una fotocellula posta dietro a questo disco e da ciò con questa alternanza si genera una frequenza derivata dal numero di giri del disco e dal numero di fori del disco stesso. Ma il problema principale e’ che il numero di fori rilevati su questo benedetto disco non ha nessuna corrispondenza che può essere paragonata ad una nota musicale.
Infatti il disco porta due serie di fori; il più esterno di 96 mentre quello interno ne conta 24. Ponendo che il disco faccia 1 giro al secondo la fotocellula riceverebbe 96 oppure 24 interruzioni del flusso luminoso generando ovviamente una “frequenza” di 96hz o di 24 hz.
Con questi dati sono poi andato a cercare sulla tabella delle frequenze (vedi tabella su mio articolo inerente l’elettrodiapason in A.R.M. N°103) se esistesse una frequenza acustica di un tale valore riportata in tabella. Non trovando nessuna dato rispondente a questi numeri, mi sono così ben presto arenato nel valutarli attentamente ma senza trovare la soluzione che sembrava già così scontata. Ho lasciato passare qualche giorno pensando insistentemente a come fare per risolvere il problema e non vi nascondo che preso dallo sconforto avevo quasi deciso di mollare il colpo. La mia cocciuta testardaggine da Brianzolo (pari solo a quella di Enrico) questa volta mi e’ venuta in aiuto perché ho pensato che un problema musicale come questo non doveva essere risolto applicando la tecnologia elettronica del passato ma applicando la teoria della musica. Scavando sempre nei ricordi di gioventù mi è venuto alla memoria di avere letto su un antico libro di musica (quelli con le figure che mi piacevano così tanto) la dimostrazione matematico/pratica inerente la formazione degli intervalli musicali utilizzando la sirena di Seebek (Vedi Fig.8) e che successivamente fù perfezionata da Konig.
Questa sirena porta un disco con otto serie di fori concentrici equidistanti, il disco e’ posto in rotazione da un forte movimento ad orologeria e in corrispondenza di ogni serie di fori vi e’ montato un supporto che sorregge un tubo flessibile. I fori della parte fissa retrostante e del disco di cui sopra sono inclinati (Vedi Fig.9) in modo che l’aria soffiata entro ogni tubetto possa creare con la rotazione del disco degli urti e in questo modo generare dei suoni. Immaginiamo ora che il numero di fori presenti nel disco di questa sirena siano 24 – 27 – 30 – 32 – 36 – 40 – 45 – 48; se facciamo ruotare il disco e soffiamo entro ogni tubetto verranno prodotti suoni le cui frequenze saranno direttamente proporzionali al numero di urti e questi ultimi al numero dei fori. Da ciò ne consegue che ad uguale velocità i numeri sopra riportati esprimono i valori relativi alla frequenza di ciascun suono.
Dividendo ogni numero per 24 si hanno rispettivamente i rapporti : 1 – 9/8 – 5/4 – 4/3
3/2 – 5/3 – 15/8 – 2 che come e’ risaputo corrispondono alle note do, re, mi, fa, sol, la, si, do (scala maggiore) sottolineo anche una importante considerazione e cioè che questa scala è perfetta in quanto soddisfa anche in teoria la legge dei rapporti esatti.
Dopo questa necessaria spiegazione credo proprio che oramai sia chiaro a tutti il sistema pensato da Aletti Enrico per produrre note musicali e cioè utilizzare il disco con un numero di fori tali da rispettare le frazioni dei vari intervalli musicali.
Infatti la prima serie di fori presenti nel disco di Enrico, partendo dall’interno, e’ pari a 24 e quindi questa, in ragione di quanto sopra riportato, produrrà la nota do. La serie di fori più esterna è pari a 96 e quindi questa ultima produrrà la nota fa. Questo in ragione del fatto che 96 e’ divisibile per 32 (numero di fori la cui corrispondenza e’ il fa) con un risultato pari a 3, quindi la serie di fori in questione produrrà certamente la nota fa ma riferita alla terza ottava sopra a quella con il do di 24 fori.
Con questo sistema meccanico (disco forato) ed elettronico (fotocellula) il nostro Aletti Enrico poteva quindi produrre diversi suoni per diverse ottave e tutto questo, faccio notare, con una precisione in frequenza assoluta perché data da un disco meccanico il cui numero di fori e’ inalterabile. Altra particolarità da segnalare è quella che con questo sistema non insorge nessun problema qualora il motore di rotazione del disco accusasse rallentamenti o incrementi di velocità in quanto a diminuire o ad accrescere la frequenza sarebbero tutte le note perché facenti parte dello stesso disco. Quindi da questa ultima considerazione ne consegue che a “crescere” o “calare” musicalmente sono contemporaneamente tutte le note in egual misura con l’ovvio risultato che i rapporti esistenti tra i vari suoni non cambiano e quindi, cosa molto importante, si mantiene costantemente inalterata anche l’accordatura. L’apparecchio di prova costruito da Aletti Enrico, disgraziatamente è andato disperso, doveva quindi assomigliare allo stesso ideato da Seebeck con la variante che a produrre i suoni non era piu’ l’aria come nell’800 ma un disco forato in modo opportuno posto in rotazione da un motore elettrico e unito da un circuito elettronico dotato di fotocellula in abbinamento ad una sorgente luminosa continua. (Vedi Fig.10 )
A completamento dell’articolo mi sembra opportuno effettuare una breve descrizione a riguardo delle cellule fotoelettriche esistenti verso la fine degli anni “30” poiché credo che questo argomento a tutt’oggi non abbia avuto l’importanza che merita.
A quel tempo esistevano principalmente tre tipi di “cellule fotoelettriche” che legavano il loro funzionamento in diretto rapporto con la luce e cioè la “cellula fotoemittente”, la “cellula fotoresistente” e la cellula fotovoltaica. Questa distinzione deriva dal fatto che la prima sotto l’effetto della luce emette elettroni mentre la seconda qualora venisse colpita dalla luce cambia la propria struttura molecolare facilitando o meno il passaggio di elettroni all’interno del materiale che la costituisce. Il terzo tipo e cioe’ la cellula fotovoltaica essendo una vera e propria “pila solare” non e’ inerente al tema dell’articolo e quindi non verra’ qui descritta. Mi sembra però utile ricordare che questo ultimo tipo di cellula era a liquido e cioe’ costituita da un cilindretto di vetro dotato di due elettrodi e contenente una soluzione; fu ideata dal noto Becquerel nel lontano 1839.
Le cellule fotoresistenti
L’effetto fotoresistente del selenio venne scoperto in modo assolutamente casuale nell’anno 1873. In quell’anno un ingegnere di nome Willoughby Smith stava effettuando i lavori per la posa di un cavo transatlantico che faceva capo a Valentia. A questo ingegnere venne in mente di utilizzare nel circuito ricevente alcune resistenze al selenio in considerazione della elevata resistenza elettrica di tale materiale. Il selenio era conosciuto sin dal 1817 per merito del chimico Svedese Berzelius che ne effettuò la scoperta. Un giorno l’operatore della stazione telegrafica di Valentia, tale May, si accorse che ad ogni suo transito di fronte alla finestra aperta della stanza dove erano montate le resistenze, gli strumenti asserviti a detto circuito accusavano una cospicua diminuzione di corrente.
Il May notato la strana concomitanza si affrettò ad avvisare lo Smith il quale dopo avere studiato il fenomeno si accorse delle proprieta’ fotoresistenti del selenio. Willoughby Smith da questi studi presento’ alla società Inglese degli Ingegneri una relazione che portò in seguito alla realizzazione delle cellule al selenio. (Vedi Fig.11) Numerosi scienziati si dedicarono in seguito a sviluppare e studiare le cellule e fra i nomi degni di nota vi sono Bell, Bidwell, Korn, Fournier, Ferriè, ed in Italia il Prof. Rolla. Fra tutti và particolarmente ricordato V. Siemens che fu il primo ad accertare con metodo scientifico la proprietà del selenio e nel 1875 costruisce la prima cella pratica con questo materiale.
Le cellule foto emittenti
Queste celle basano il loro funzionamento sulle proprietà che hanno alcuni metalli di liberare elettroni quando vengono colpiti dalla luce. La cellula foto emittente è costituita da un bulbo di vetro vuotato dell’aria e al cui interno vengono inseriti un anodo ed un catodo. (Vedi Fig. 12)
Il metallo che costituisce la parte fotosensibile è realizzata con materiali alcalini o alcalino/terrosi e lo stesso viene fatto funzionare da catodo cioe’ da polo negativo, quindi da emettitore di elettroni. L’anodo collegato al polo positivo è costituito normalmente da un filo ricurvo, in modo da non interferire con la luce, e posto nelle immediate vicinanze del catodo così da catturare tutti gli elettroni che lo stesso emette per effetto fotosensibile. Il circuito elettrico, come si nota dalla fig.11 è analogo a quello utilizzato nelle normali valvole termoioniche e se vogliamo si può anche formulare che esiste una certa analogia nel funzionamento. Infatti nelle cellule foto emittenti il catodo funziona per azione luminosa anziché calorica come nelle valvole classiche , mentre la griglia di queste ultime e’ praticamente sostituita dalla modulazione della luce incidente.
Da questi brevi cenni si può così dedurre che le due cellule, (selenio ed emittente) sebbene funzionanti entrambe per effetto luminoso, hanno fra di loro delle sostanziali differenze. La prima (cellula al selenio) è di semplice applicazione ed e’ priva di polarità, così che queste celle sono corrispondenti a delle semplici fotoresistenze.
La seconda invece (cellula foto emittente) di cui in Fig.13/14/15 ne sono raffigurati tre esempi può considerarsi come un “caso particolare” del triodo ed abbisogna per funzionare di una tensione acceleratrice. Questo tipo di fotocellula, la emittente, è’ la stessa usata da Aletti Enrico per i suoi esperimenti. Chiaramente il nostro Enrico ha optato per questo tipo di fotocellula in quanto ben sapeva che il tipo al selenio ha una notevole “inerzia”. Questa inerzia rappresenta il limite d’uso in frequenza delle fotocellule al selenio e principalmente il fenomeno rappresenta la “pigrizia” della cellula a seguire le variazioni della luce. Per avere qualche riferimento sui limiti d’inerzia delle cellule, faccio presente che questa varia da 400hz per il selenio a 20Kz per il tipo foto emittente. Non mi sembra opportuno effettuare ulteriori accenni sul fenomeno fotoelettrico poiché dovremmo addentrarci a trattare il meccanismo di funzionamento dell’effetto luminoso sui metalli con la inevitabile conseguenza di allungare eccessivamente l’articolo. A tale proposito mi limito però a ricordare che il fenomeno fotoelettrico fu previsto teoricamente dall’arcinoto Herz nel 1887 e fu studiato e scoperto da Hallwachs nel 1888 prendendo così il suo nome. (effetto Hallwachs) Questi studi iniziati da Hallwachs furono continuati in seguito da Stoletow, Murrit, Stewart, Leonard e anche sorprendentemente dal nostro Righi.
Cosa ne fece poi Aletti Enrico di questo esperimento non mi e’ noto e questo vi assicuro, non perché io non ricordi, ma perché il nostro “sciur Enrico” e’ purtroppo venuto a mancare proprio quando mi stava tramandando tutte le sue curiose ed allo stesso tempo mirabili avventure.
L’articolo è stato pubblicato su Antique Radio Magazine n°129, per ingrandire le pagine clicca sopra l’immagine.
Questo articolo è il capitolo 10 del libro di Serafino Corno “Enrico Aletti e la storia inedita del primo organo elettronico italiano. Funzionante con lampade a gas inerte.”